Italia 1972
con Giancarlo Giannini, Mariangela Melato, Agostina Belli, Turi Ferro, Luigi Diberti, Elena Fiore, Tuccio Musumeci, Gianfranco Barra, Livia Giampalmo, Ignazio Pappalardo
regia di Lina Wertmüller
Carmelo Mardocheo detto Mimì rifiuta il voto di scambio e il giorno le elezioni dopo viene licenziato. Per ripicca si trasferisce a Torino ma anche qui deve sottostare alle leggi mafiose del caporalato. Diventato un fervente comunista Mimì s’innamora di Fiore, una hippie milanese anche lei trasferita a Torino. L’amore è ricambiato e i due hanno un figlio ma ancora una volta la mafia ci mette lo zampino e l’omertà di Mimì viene premiata con la trasferta in Sicilia. Mimì rientra con la nuova famiglia al seguito ma deve tornare a convivere con Rosalia, la moglie legittima. Quando Rosalia resta incinta di un finanziere, pur non amandola più, Mimì si sente ferito nell’onore e seduce Amalia, moglie dell’amante della moglie mettendola incinta. Quando svela lo sgarro al rivale in amore, un sicario della mafia che doveva proteggerlo uccide Amilcare e Mimì finisce in galera. A fine pena si trova a dover mantenere la prole della moglie, quella di Amalia e dell’amata Fiore e per questo cede alle lusinghe mafiose diventando un galoppino per le nuove elezioni ma Fiore lo abbandona non accettando il tradimento politico.
Il film che segna la definizione dello stile di Lina Wertmuller, caustico e confusionario, primo dei tre film in cui la regista dirige la coppia Giannini-Melato.
Una commedia che incrocia diversi temi, politici e amorosi in una satira feroce sul gallismo siculo. Se più o meno faticosamente i rapporti uomo e donna si sono evoluti d in questo mezzo secolo, l’episodio del morto sul lavoro abbandonato in mezzo
al niente delle campagne torinesi, è ancora di stringente attualità.
Molto interessante la recitazione di Giannini che ha guizzi chapliniani.
Il fallimento dell’evoluzione maschile del proletario emigrato e politicamente preparato che però non riesce a liberarsi da preconcetti atavici è rappresentato dall’indomabilità dei ricci di Mimì che si sforza in vari modi di lisciarli ma che tornano allo stato brado ad ogni scatto d’ira del protagonista.
Riuscita anche la metafora mafiosa: tutti i personaggi che ne incarnano il potere sono interpretati dal medesimo attore, Turi Ferro, e Mimì li riconosce dai tre nei sulla guancia, per quanti sforzi faccia per provare a ribellarsi il protagonista non ha mai il coraggio di completare il processo di ribellione finendo per diventare un ingranaggio della macchina da cui ha cercato di sfuggire, non a caso il film si conclude nella stessa solfatara dove si era aperta la storia con il ruolo invertito del protagonista, prima operaio da convincere e alla fine guappo che fa propaganda al voto mafioso.
Il fallimento della ribellione alla mafia si ripete nella vita sentimentale di Mimì che non ha mai amato Rosalia, ha un figlio con un’altra donna ma arriva a sedurre una donna che non gli piace pur di vendicare l’onore ferito.
La famigerata scena con le abbondanti natiche di Amalia ricordano i trascorsi da aiuto regista di Fellini della Wertmuller: la composizione della scena con il protagonista maschile relegato e rimpicciolito in un angolo terrorizzato da questo enorme culo che avanza ricorda l’enorme tetta della Ekberg che insegue il puritano de Filippo ne
Le tentazioni del Dottor Antonio.
Anche la figura di Fiore, per quanto marginale nella seconda parte del ritorno in Sicilia, ha delle sfumature insolite, accetta la surreale riparazione dell’onore ferito di Mimì ma resta intransigente e lo abbandona di fronte al tradimento politico, una scelta oggi inconcepibile.
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