Ma vie de courgette
Francia 2016, Teodora Film
regia di Claude Barras
Icare, detto Zucchina, uccide senza volerlo la madre alcolizzata per difendersi dalla sua violenza, finisce così in una casa famiglia con altri cinque bambini capeggiati dallo sbruffoncello Simon; quando arriva Camille per Zucchina è amore a prima vista e la ragazzina unisce ancora di più i coinquilini in una specie di famiglia. Dopo essersi liberata a dell’odiosa zia, Camille e Zucchina vengono adottati dal poliziotto che si è occupato del caso di Zucchina e non lo ha mai abbandonato.
Tratto dal romanzo Autobiografia di una zucchina di Gilles Paris, il film è un mediometraggio (66 minuti di durata) in stop motion pluripremiato in Europa e candidato a miglior film d'animazione agli Oscar 2017 e ai Golden Globes dello stesso anno.
La storia è molto lineare e semplice ma i temi toccati sono così struggenti e maneggiati con tanta delicatezza (la sceneggiatura è di Céline Sciamma) che la semplicità narrativa diventa un pregio al servizio della profondità dell’opera.
La mia vita da zucchina è uno sguardo a misura di bambino sull’infanzia negata: il protagonista è figlio di genitori separati, il padre ha abbandonato la famiglia e la madre è sprofondata nell’alcolismo sfogando le sue frustrazioni sul figlio che per difendersi dall’ennesimo scatto di rabbia ne causa involontariamente la morte. Nonostante i genitori poco amorevoli che gli sono capitati, Icare è molto legato a loro: il padre assente è effigiato sul suo aquilone, vuol essere chiamato Zucchina, nomignolo affettuoso che gli ha dato la madre di cui conserva come ricordo una lattina di birra vuota.
Anche gli altri bambini della casa famiglia sono sopravvissuti all’inferno: genitori drogati, abusanti, finiti in carcere o rimpatriati come clandestini senza la possibilità di salutare i figli. Poi arriva Camille, la cui madre è vittima di femminicidio da parte del padre che poi si è suicidato, in più la ragazzina è stata affidata a una zia odiosa, anafettiva e attaccata al denaro. A proposito di femminicidio, è interessante e non certo casuale la scelta di mettere in colonna sonora, come canzone dei titoli di coda, Le Vent nous portera nella delicata cover di Sophie Hunger.
La quotidianità nella casa famiglia è dignitosa, raccontata con dolcezza, strappa facilmente un sorriso rendendo ancora più agghiaccianti i momenti in cui si rivela il vissuto dei piccoli protagonisti: toccanti i momenti di stress in cui Alice, vittima degli abusi paterni, inizia a battere la forchetta sul piatto.
Guidata da un’anziana assistente sociale comprensiva con un simpatico professore che si fidanza con la giovane assistente, l’orfanatrofio ha la parvenza di una struttura familiare: nonna, genitori, un rifugio dalle brutture del mondo già duramente sperimentate ma la scena in montagna in cui i ragazzini in vacanza, vedendo un bambino consolato dalla vera madre rimangono sbigottiti dall’affetto che mai potranno avere, sottolinea ancora una volta il malinconico dolore che sempre li accompagna.
Le figure in plastilina con cui sono rappresentati i personaggi del film ricordano un po’ quelle di Tim Burton, soprattutto per i grandi occhi a palla che sanno raccontare così bene i non detti e i drammi dei piccoli orfani.
Un film molto delicato che al lieto fine di Zucchina e Camille, adottati dal poliziotto che ha preso in carico Zucchina dopo la morte della madre e che non lo ha mai lasciato, fa da contro canto il destino degli altri bambini restati in orfanotrofio con la maturazione di Simon che da bulletto d’inizio film si trasforma nel fratello maggiore dei suoi compagni.
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