Italia, 1960
con Barbara Steele,John Richardson, Andrea Checchi, Arturo Dominici, Ivo Garrani, Enrico Olivieri, Mario Passante, Antonio Pierfederici, Tino Bianchi, Clara Bindi
regia di Mario Bava
Nella Valacchia del XVII secolo la strega Asa Vajda e il suo amante Igor Javutic vengono debellati con un rito cruento ma in punto di morte Asa maledice a sua volta la discendenza della sua stessa famiglia che l'ha messa al rogo, rogo per altro non concluso per un improvviso temporale. Duecento anni dopo due medici russi finiscono incautamente nella cripta dove è sepolta la strega e l'attacco di un pipistrello fa sanguinare il polso del dottor Kruvajan che ha tolto la maschera del demonio che trafigge il volto di Asa. Le poche gocce di sangue bastano a risvegliare la strega che dopo aver sterminato tutti i principi Vojda vuole reincarnarsi nella principessa Katia, la discendente che ha le sue stesse fattezze.
L'esordio alla regia di Mario Bava è un capolavoro del gotico italiano che non ha mai raggiunto -almeno in patria- la fama che gli spetta.
L'autore era un grande direttore della fotografia che ha collaborato a lungo con Riccardo Freda inventando gli effetti per far invecchiare davanti alla macchina da presa Gianna Maria Canale ne I Vampiri effetto che torna anche nel finale de La maschera del demonio quando la forza vitale passa da Katia a Asa e viceversa nel lieto fine. Bava si occupava anche di effetti speciali e se in Caltiki creò un mostro facendo bollire la trippa, gli occhi di Asa che si sta "rimpolpando" grazie al sangue del dottore potrebbero benissimo essere due tuorli d'uovo, dato l'ingegno del maestro!
Ispirato da un racconto di Gogol', il film ha anche referenti nell'horror classico: Javutic che guida -al rallenti- la carrozza per andare a prendere il dottore prima dello stalliere inviato dai Vojda ricorda il viaggio per arrivare al castello di Nosferatu nel film omonimo di F.W. Murnau.
Mi ha colpito come, pur essendo in fondo una storia di vampiri, il riferimento al vampirismo sia molto latente, si preferisce parlare di streghe e diavoli, quasi a voler togliere ogni componente affascinante che il cinema americano aveva dato al vampiro. Solo l'essenza puramente malefica di Asa e il suo amante potevano del resto giustificare la scena iniziale ambientata nel XVII secolo con le torture inflitte ai due diabolici amanti: la soggettiva della maschera chiodata all'interno mentre sta per essere indossata da Asa conserva ancora oggi il suo spirito orripilante.
Un altro esempioo che distingue la cinematografia di Bava e il gotico italiano dalla tradizione americana è il viaggio di Sonia, la figlia della locandiera che deve andare a mungere la mucca vicino al cimitero dov'è(ra) sepolto Javutic: c'è una scena simile ne L'uomo leopardo di Jacques Tourneur quando Teresa Delgado, vittima del leopardo deve uscire dal paese per procurare la farina: se secondo l'idea di paura di Val Lewton è il buio e gli orrori che questo può nascondere a fare paura, Bava trasforma il tragitto di Sonia in un profluvio di simboli orrorifici: rami che arrivano in faccia, rospi ecc.. Un climax ascendente che non porta a nulla ma non fine a sé stesso tutto contribuisce a creare il registro di ambiguità su cui il regista vuole giocare: chi non ha creduto che la prima apparizione di Katia coi cani fosse quella di Asa (già) rediviva?
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