Lo scontro millenario tra cani e gatti finisce nel futuro prossimo venturo: nel 2038 nella megalopoli giapponese di Megasaki, il sindaco Kobayashi fa deportare tutti i cani nell'isola dei rifiuti per evitare che un'influenza canina si trasformi in pandemia mortale anche per gli umani, anche se lo scienziato Watanabe si dice prossimo a trovare un vaccino.
Il primo cane ad essere deportato è Spots, il cane di Kobayashi: in realtà l'animale appartiene al nipote Atari che ben presto raggiunge l'isola dei rifiuti per recuperare l'amato Spots: verrà aiutato da una banda di cinque cani e riuscirà a far reintegrare i cani nella società civile grazie anche all'aiuto di Tracy, una ragazzina americana che studia in Giappone e sospetta che quella contro i cani sia una cospirazione.
Mai locandina fu più esplicita di quella de L'isola dei cani che è davvero tante, forse troppe cose: un misto tra fiaba e leggenda, una metafora del nostro tempo, tutti aspetti che ho apprezzato molto.
L'horror vacui caratteristico di Wes Anderson però mi ha un soverchiato a livello visivo per cui la saturazione di oggetti ha perso la valenza fantastica appiattendosi in puro decoro, ammirevole per perizia e nulla più; anche a livello di trama mi è sfuggito il senso dello sdoppiamento dei cani: Chief non è Spots come sperato alla fine del bagno ma il fratello di Spots quindi i cani eroi diventano due, con due compagne, insomma ulteriori elementi da incastrare senza aggiungere di fatto nulla al film che vuole stigmatizzare il potere, la manipolazione delle informazioni, messe in crisi, come sempre nella teoretica di Anderson, dalla ribellione adolescenziale incarnata soprattutto da Tracy che ben presto convince i suoi compagni a seguirla nell'idea di smascherare la cospirazione contro i cani.
L'unico che non ha bisogno di far riafforare i ricordi legati ai propri amici a quattro zampe è Atari, sopravvissuto alla morte dei genitori e affidato allo zio sindaco, il ragazzino solitario è diverso anche nell'aspetto caratterizzato dalle schegge che ricordano l'incidente a cui è sopravvissuto, un tributo del regista ai tanti cyber boy del cinema nipponico.
L'incontro tra il mondo di Wes Anderson e la cultura nipponica è stato molto analizzato: i tributi ai vari registi, alle varie forme d'arte presenti nel film.. da perfetta profana della cultura nipponica penso che la necessità di Anderson di riempire lo scenario con simboli e oggetti cozzi proprio con la stilizzazione densa di significato del mondo orientale e forse è perché avverto questa disarmonia che non ritengo L'isola dei cani un capolavoro.
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