Francia 1985
con Sandrine Bonnaire, Macha Méril, Yolande Moreau, Stéphane Freiss
regia di Agnès Varda
Una mattina d' inizio inverno in un fosso viene trovato il cadavere di una ragazza, una barbona senza documenti probabilmente morta congelata. La voce off della regista dice di essere rimasta colpita dalla vicenda di questa ragazza che non ha lasciato nulla dietro di sé e di esser riuscita a ricostruire l'ultimo periodo della sua vita dalle parole di chi l'ha incontrata.
Avevo visto Senza tetto né legge all'uscita in sala dopo la vittoria del Leone d'oro a Venezia, a trent'anni di distanza provo lo stesso senso di devastazione di quella prima visione, forse anche peggiore perché la società si è sempre più omologata e basta molto meno per essere considerati (sopratutto se donna) una ribelle “senza tetto né legge” finendo emarginati e vittime di una solitudine sempre più divorante.
Con uno stile scarno e poetico Agnès Varda racconta una storia di duplice lettura: da una parte c'è Mona, segretaria insofferente alle regole che spinge la sua ribellione fino a scegliere la strada e la solitudine. Strafottente e dura, come tutti Mona non può vivere senza i suoi simili, pur tenendoli a distanza e la discesa negli inferi della noncuranza è dovuto ad alcuni rifiuti particolarmente sofferti, quello della docente univeritaria che per qualche giorno la accoglie nella sua macchina mentre è in viaggio per poi abbandonarla senza preavviso e quello del tunisino che promette di prendersi cura di lei per poi cacciarla quando gli altri emigrati che condividono con lui la vecchia casa nella cascina rifiutano la presenza di una donna tra loro.
Il film racconta anche le reazioni di chi incontra anche solo casualmente questa strana ragazza che pietosamente la regista fa uscire dalle acque di un freddo mare autunnale, come una sirena sperduta tra gli esseri umani.
C'è chi cerca di approfittare di lei, chi la compatisce, chi ne ha paura o le impartisce lezioni di vita ma anche chi la invidia (guarda caso tutte donne) e proietta su di lei le sue fantasie di libertà o d'amore come la cameriera Yolande che la sorprende addormentata con un compagno occasionale nel castello disabitato di cui lo zio è custode e nella sua mente imbevuta di romanzetti i due diventano gli amanti del castello, la coppia perfetta che la ripaga di una relazione con un delinquentello che la sfrutta.
Per la docente universitaria, Mona è quasi un cucciolo abbandonato di cui prendersi cura ma ben presto si stanca, salvo poi pentirsi di averla lasciata sola: sarebbe l'unica disposta ad aiutare veramente Mona ma è anche l'unica che non ha più occasione di incontrarla; perché nel suo vagabondare la ragazza gira in tondo, una falena impazzita che tenta di sfuggire a quel consesso umano che la attrae ma che non sa gestire ed è altamente simbolico che a portarla alla morte sia l'inconsapevolezza di attraversare un paese con una tradizione legata al vino per cui uomini mascherati (tipo i Krampus altoatesini) prendono di mira i passanti, terrorizzando e sfinendo definitivamente Mona già stremata dalla vita sempre più randagia.
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