Una settimana della vita del trentenne Paterson, autista di autobus nella città di Paterson, New Jersey.
Una vita tranquilla: una moglie, Laura, un cane, un bar dove andare a bere una birra tutte le sere, ritmi di vita talmente consolidati che non c'è neppure bisogno di puntare la sveglia per alzarsi la mattina.
Abitudinario ma felice Paterson si nutre di poesie, quelle che scrive sul suo taccuino segreto, senza nessuna ambizione di fama, solo per restare in contatto con sé stesso.
La maggior parte dei film di Jim Jarmush racconta storie minimali e un po' strambe che si riflettono anche nello stile di ripresa: macchina frontale o diagonale, ripresa fissa o qualche carrello che, come quando parte come nel sottofinale di Paterson, ti emoziona più dell'elaborato piano sequenza del momento.
Nulla di nuovo, apparentemente se non fosse che Paterson è il film più zen degli ultimi anni, dove la poesia delle piccole cose è raccontata con poesia (scusate la ripetizione ma in fondo l'anafora linguistica e stilistica è la cifra del film) e spiega come può dare se non la felicità, quanto meno la più necessaria serenità.
Un film che dimostra meglio del più venduto manuale motivazionale come il nutrire le proprie passioni, vulcaniche come quelle di Laura o delicatamente intime come quelle di Paterson, rappresenti il vero io di una persona, molto più del suo lavoro o del suo status sociale: lo dimostra il piccolo (!) dramma famigliare che getta giustamente il protagonista nello sconforto di aver perso sè stesso ma gli dà anche l'occasione per nuovi incontri e ritrovare la sua inossidabile serenità.
Anche la città Paterson è protagonista del film, con il suo fascino decadente fatto di vecchie fabbriche abbandonate senza nessuna prospettiva di riqualificazione, la cascata incastonata nell'ex tessuto industriale, un passato glorioso di personaggi celebri che sono passati di lì e che ora sopravvivono solo sul muro del bar di Doc.
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