con Franco Citti, Ninetto Davoli, Roberto Benigni, Olimpia Carlisi, Giorgio Gaber, Fabio Traversa, Carlo Monni, Daria Nicolodi
Regia di Sergio Citti
Francesco e Giovannino sono due accattoni che si incontrano rovistando tra i cassonetti della periferia romana, litigando gli avanzi a un can barbone. Finiti in galera, dividono la cella con il Maestro, un senzatetto abilissimo nel mangiare a sbafo nei ristoranti, i due si aggregano al maestro e riescono a fare una cena luculliana a sbafo. Il trio si rifugia nella notte in un carro bestiame che parte senza che loro se ne rendano conto trasportandoli in Toscana, a Poggibonsi. La Toscana si rivela più inospitale di Roma e i tentativi di mangiare dei tre poveracci falliscono perennemente mentre s'ingrossa la fila di diseredati che si mettono a seguirli..
Il Minestrone è forse l'opera più ambiziosa di Sergio Citti: il film dura 170 minuti ma la versione che gira (raramente) in tv è scorciata di un'ora buona. Il cast è notevole sia per numero di partecipanti che per gli attori: se un Benigni ancora poco noto è coprotagonista con i pasoliniani Franco Citti e Ninetto Davoli, tra i personaggi che si aggregano al vagare dei tre protagonista, molti sono i nomi di rilievo: Olimpia Carlisi è l'ostessa che ha trasformato la trattoria in agenzia di pompe funebri perché se la gente può saltare il pasto, non può esimersi dal fare i conti con la morte, Daria Nicolodi è la moglie del ricco imprenditore fallito che dopo aver tentato il suicidio preferisce rinnegare moglie e figlioletta per restare con il ricchissimo e avaro padre marchese, Fabio Traversa è il cameriere che gli osti cacciatori tengono alla catena per aver rubato qualcosa da mangiare durante il servizio, uno degli osti cacciatori è Carlo Monni e infine il ruolo del pseudo santone che ammette di non saper dove conduce l'accolita di disperati è affidato a Giorgio Gaber.
Il tema principale del film è la Fame atavica dei diseredati, una fame che occupa tutti i pensieri e non permette di avere altri scopi nella vita inglobando i sé tutti i bisogni primari dell'uomo.
Gli accattoni Francesco e Giovannino la rappresentano in pieno, dividendo la sorte del povero cane randagio che quando finalmente riesce a rubare un pollo è costretto a cederlo a un cane più grosso che pure ha un padrone che lo sfama regolarmente. Anche i due barboni riusciranno a fare un unico pasto sostanzioso appena incontrato il maestro ma la caduta in una profonda pozzanghera di acqua marcescente induce il vomito per cui i due restano sazi solo per pochi minuti. Anche l'ultimo pasto, materiale sintetico che ricopre un missile, per quanto pessimo viene nuovamente estratto con la lavanda gastrica: la sazietà non può appartenere ai derelitti che debbono sopperire con la fantasia, il pasto immaginario nella trattoria abbandonata.
E con stile stralunato e surreale Citti racconta questa storia dalle chiare referenze pasoliniane, dallo sguardo indulgente per i diseredati alla denuncia della speculazione immobiliare: soprattutto nella parte romana i palazzoni di borgata, per quanto nuovi, hanno un che di irreale in una terra completamente brulla, anche il paesaggio toscano viene mostrato nei suoi aspetti più scabri e spesso si finisce in discariche, svalicando colline di copertoni di automezzi, in antitesi con le cascine e i borghi abbandonati.
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