Al Grand Budapest Hotel, struttura termale ormai decadente nell'epoca sovietica, uno scrittore incontra il celebre proprietario dell'albergo, personaggio bislacco che ha barattato le sue ricchezze col regime pur di restare in possesso della struttura. Zero Moustafa racconta al romanziere la storia rocambolesca di come, da garzoncello apolide e squattrinato, divenne ricchissimo e proprietario dell'hotel a cui è tanto legato..
Questa volta la ricostruzione fantasiosa di mondi in versione pop up di Wes Anderson si indirizza sugli strascichi della Belle Époque: il Grand Budapest sorge in uno di quei piccoli stati dai nomi fantasiosi di cui si punteggia la Mitteleuropa da operetta. La vicenda però, è ambientata nel 1932, fuori tempo massimo per la Belle Époque godereccia e raffinata: venti di guerra e sentimenti xenofobi e prevaricatori assediano l'hotel, ultima roccaforte di affabilità e joie de vivre imposti con ostinazione dal fatuo direttore Monsieur Gustave, amante di tutte le vecchie clienti dell'albergo e in grado di creare stretti legami di amicizia in un ambiente ostile come la prigione grazie alla gentilezza che ritiene vero motore del mondo.
Con la stessa capacità di ricostruire fondali di cartone o modellini dei suoi ambienti, il regista restituisce fedelmente un periodo cinematografico: la stagione della commedia sofisticata americana dei primi anni '30 resa grande da artisti mitteleuropei in fuga dalla nascente Germania nazista e dai contenuti allegramente maliziosi che hanno preceduto l'entrata in vigore del codice Hays, applicato a partire dal 1934. Il tema della fuga, molto presente nella filmografia di Anderson, assume così i ritmi concitati delle comiche e una comicità molto fisica pervade tutta la pellicola.
Cast di grande richiamo con presenze fisse come Bill Murray ed Ed Norton e uno squisito Ralph Fiennes nel ruolo del protagonista mentre Tilda Swinton dopo Snow piercer si riconferma regina dei travestimenti interpretando la vecchia Madame D.
Il film ha vinto (meritatamente) l'Orso d'argento, gran premio della giuria alla Berlinale 2014.
Semplicemente delizioso. Mi piace Anderson, ma non mi sono mai veramente innamorato dei suoi film, questo invece lo vorrei già rivedere. Comunque il temo della fuga è ricorrente, ma questa volta forse c'è una cattiveria di fondo ben celata che contrasta bene con i toni del racconto.
Scritto da: Tiziano | 18 aprile 2014 a 10:36
la delizia deriva dalla citazione lubitschiana (riconosciuta dallo stesso Anderson mica dalla mia solita esaltazione personale ^_*)
Scritto da: ava | 30 aprile 2014 a 17:57