Il grande raccordo anulare di Roma, 70 km di asfalto che circondano la capitale segnando un limite, un confine tra chi è dentro, inurbato e chi è estromesso dai confini della capitale. Come sempre le zone di confine non sono divisioni nette, precise e proprio in quei luoghi si trova un'umanità bizzarra, dolente forse anche ridicola ma certamente commovente.
Le critiche che mi è capitato di leggere a Sacro GRA riguardano la scarsa attenzione al raccordo che nel film è solo un baluginio di luci sfocate, un fiume di macchine che scorre indifferente verso chi si abbarbica ai margini della città. Lo sguardo di Gianfranco Rosi s'identifica di più con l'occhio dell'entomologo che cerca di curare le palme dal punteruolo rosso: anche il regista cerca di identificare il suono che urla premendo alle porte della città. Attraverso architetture quasi d'invenzione, aree di sosta sporche, Rosi non si sofferma su un degrado urbanistico evidente (anche se la luce romana non riesce ad essere scalfita) ma insiste ad inseguire le vite dei suoi protagonisti, rubandone piccoli brandelli che le svelano pur lasciandone intatto il mistero.
Un roadmovie verso il nulla, un'ellisse che s'avvita su se stessa per tornare al punto di partenza: il candore spudorato di quell'umanità che si espone tra le pieghe del Sacro GRA.
Film vincitore (prima volta per un documentario) del Leone d'oro come miglior film alla 70ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia
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