In un non meglio precisato periodo del secondo Ottocento, Taddeus, nero affrancato dalla schiavitù, finisce naufrago sulle coste cinesi. Accolto e curato da monaci buddisti, diventa il fabbro di un villaggio malfamato in mano a clan di briganti. Quando l’oro del governatore passa per Jungle Village lo scontro tra le bande si fa inevitabile, come il tradimento dei subalterni e a chi sopravvive resta solo la vendetta.
Il caso de L’uomo dai pugni di ferro mi ricorda Rob Zombie e La casa dei 1000 corpi: il film di genere trae nuova linfa da esponenti musicali poco noti al pubblico mainstream come il rapper RZA regista e protagonista di questo rutilante action movie che declina tutti i topos classici del wuxia in salsa blaxploitation.
Rob Zombie si è poi meritato il titolo di autore mentre su RZA incombe l’ombra di Quentin Tarantino, produttore della pellicola. Dal mondo tarantiniano arrivano Pam Grier, madre di Taddeus (invecchiata come Samuel L. Jackson in Django Unchained), Gordon Liu (il Pai Mei di Kill Bill) e soprattutto Lucy Liu che gioca con il ruolo che l’ha resa celebre, quello di O-ren Ishii: quando le ragazze del suo bordello si rivelano essere letali guerriere oltre che donne di piacere lo sguardo che l’attrice lancia in camera sembra ricordare ironicamente che non si esce da certi personaggi.
Con tutti i difetti di una “tarantinata” o di un giocattolone di pura evasione, L’uomo dai pugni di ferro porta una ventata di freschezza in un genere che i registi del Sol Levante stavano cristallizzando nella pura estetizzazione della violenza: nel film scorre fortunatamente una vena splatter davvero liberatoria e oltre al mentore Tarantino RZA sembra conoscere molto bene la cinematografia wuxia, che cita a mani basse, con un occhio anche ai cartoons, stando attori dai ciuffi scompigliati alla Actarus o i pugni di ferro del titolo che diventano magli rotanti degni del Grande Mazinga.
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