Usa, 1945
con Tom Neal, Ann Savage
regia di Edgar G. Ulmer
Al Roberts e’ uno squattrinato pianista newyorchese, innamorato di Sue, una cantante che pur amandolo e volendolo sposare, si trasferisce a Los Angeles in cerca di fortuna. Quando la nostalgia per l’amore lontano si fa troppo forte, Al decide di attraversare gli States e raggiungere Sue in autostop ma gli incontri che farà lungo il viaggio lo condurranno molto lontano dalla sua meta...
Definito da tempo come il B movie piu’ celebre del mondo, questo capolavoro, della durata di soli 65 minuti, e’ costruito come un lungo flash back narrato in prima persona dalla voce fuori campo del protagonista.
Girato con un budget ridottissimo e in meno di sei giorni di lavorazione, il film e’ un road movie inquietante dai risvolti filosofici, spesso accostato al surrealismo kafkiano: Haskell, l’uomo che offre un passaggio a Roberts muore accidentalmente, e nel timore di essere incolpato di omicidio, il protagonista prende la sua identità (nonché la sua auto e i suoi soldi); poco tempo dopo Roberts/Haskell offre un passaggio ad una autostoppista che dice di chiamarsi Vera: il caso beffardo vuole che la donna abbia conosciuto il vero Haskell e, convinta che Roberts l’abbia assassinato, inizia a ricattarlo. Il protagonista e’ ormai prigioniero di una spirale di casualità’ sbagliate piu’ grandi di lui che culmina nell’involontario strangolamento della donna dovuto allo strattonamento del filo del telefono attraverso una porta chiusa, scena celeberrima per essere stata girata in un unico piano sequenza lungo sei minuti.
Partendo da un banale passaggio accettato sulla strada, Ulmer tratteggia un amaro apologo sulla condizione umana, perennemente in balia degli eventi: il libero arbitrio espresso dal protagonista che decide di occultare la morte accidentale del suo compagno di viaggio, comporta conseguenze sproporzionate rispetto alla “colpa” iniziale.
Il regista destruttura il genere noir a cui il film dovrebbe appartenere: non compaiono mai armi ed i poliziotti sono semplici comparse che nell’economia filmica servono a depistare lo spettatore creando una falsa aspettativa, perche’ i colpi che il destino riserva al protagonista, arrivano inaspettatamente e nella maniera piu’ impensata.
Interessante il lavoro operato dentro la struttura del road movie, a cui rimanda il titolo stesso dell’opera: detour, deviazione. Come nelle mappe nautiche l’infinitesimale spostamento delle rotte conduce lontano dalla meta prefissata, nel film quello che doveva essere un viaggio verso un lieto fine romantico, ha per destinazione finale un angosciato smarrimento in attesa di un improbabile trionfo della giustizia.
Sono notevoli le soluzioni che nonostante le scarsissime finanze a disposizione, Ulmer sceglie per rendere visivamente il viaggio attraverso gli Stati Uniti: il dettaglio dei piedi in cammino sovrimpresso sulla carta geografica, da subito identifica anche storicamente il periodo in cui e’ stato girato il film, quei primi anni dopo la seconda guerra mondiale che vedono i giovani americani iniziare a muoversi per il Paese on the road, come recita anche il titolo del romanzo manifesto di quella generazione.
Anche l’uso dei trasparenti (scene di spazi aperti proiettati dietro l’automobile filmata in studio) crea un contrasto fondamentale per la tensione della pellicola tra gli spazi sconfinato dei deserti dell’Arizona e la situazione di costrizione, di gabbia metafisica che attanaglia il protagonista.
La scena del telefono è straordinaria davvero. Il film, ovviamente, l'ho adorato. Un noir on the road fantastico.
Scritto da: ale55andra | 13 dicembre 2012 a 22:46
ovviamente quoto tutto! :)
Scritto da: ava | 14 dicembre 2012 a 17:26