Palermo, fine anni ‘70. Nicola Ciraulo campa la famiglia facendo il robivecchi: smonta quanto è ancora riutilizzabile dalle navi in demolizione. A suo carico, oltre la moglie e i genitori, ci sono i due figli, l’adolescente ed inane Tancredi e la piccola Serenella dal destino infausto: si prende la pallottola destinata al cugino mafioso Masino. La famiglia Ciraulo ha diritto a un risarcimento per le vittime di mafia, la cifra è cospicua ma tarda ad arrivare e i Ciraulo finiscono in mano agli strozzini. Quando finalmente i soldi arrivano, pagati tutti i debiti, del gruzzolo resta poco ma la cifra è sufficiente per realizzare il sogno di ogni italiano: comprarsi una signora macchina, la Mercedes..
Debutto in solitario alla regia per Daniele Ciprì del duo Ciprì e Maresco, che resta fedele allo stile grottesco dei tempi di Cinico tv, anche nella scelta di facce straordinarie per i suoi personaggi, con il supporto di un grandissimo cast in cui spicca la solita bravura, declinata in un nuovo aspetto, di Toni Servillo.
La storia è quella emblematica di una famiglia di poveracci improvvisamente arricchita che passa da una situazione di sottoproletariato economico a una parvenza di benessere che le permette prima di vivere a credito sulla cifra che lo Stato le deve e poi, proprio per i ritardi statali, finisce in mano agli strozzini. Superate le traversie burocratiche resta quanto basta per realizzare il sogno “accattarsi ‘a machina” e che macchina! Il modello più esclusivo di Mercedes che testimonierà il nuovo status economico raggiunto dai Ciraulo.
Ovviamente l’auto sarà solo fonte di nuovi guai e il tono lieve per quanto grottesco ed incisivo che ha retto il film si chiude nel finale in una morsa crudele dove la sopravvivenza della famiglia impone sacrifici assoluti ai singoli componenti in nome di un bene comune superiore.
La vicenda è ambientata a cavallo tra gli anni ’70 e ‘80 quando l’Italia passò definitivamente alla modernità. C’è qualcosa di pasoliniano nelle scenografie (il rientro nei grandi casermoni popolari che incombono come le mura possenti di un castello medievale) e mi piace che per quanto Tancredi e il nonno fissino imbesuiti la tivù questa non riesca mai a sintonizzarsi su un canale: l’ho letta come una metafora che finalmente discolpa la televisione e il conseguente berlusconismo da tutte le colpe del degrado italiano. Il film si chiude infatti ai giorni nostri e le case popolari sono ben più squallide della dignitosa vitalità dimostrata negli anni ‘70. Certamente la televisione e il berlusconismo hanno molte responsabilità ma avere il coraggio di guardare gli aspetti più vergognosi di una certa tradizione italiana disposta a tutto pur di arricchirsi senza nascondersi dietro i soliti alibi (che ne diventano conseguenza) è un segno di coraggio e di speranza.
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