Nel carcere di massima sicurezza di Rebibbia si organizza annualmente un laboratorio di teatro, questa volta il testo da portare in scena è il Giulio Cesare di Shakespeare; il film documentario dei Fratelli Taviani segue tutte le fasi del progetto, dalla scelta degli attori alle prove fino alla prima dello spettacolo.
Il paragone che mi viene ripensando a Cesare deve morire è con un libro, Le memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar: solo in quel testo scritto ho trovato la stessa densità di concetti in un linguaggio estremamente asciutto.
Girato prevalentemente in un bianco e nero fortemente contrastato (solo le immagini dello spettacolo sono a colori) il film riesce a restituire con poche pennellate il mondo dei carcerati quando le battute riportano alla memoria situazioni reali vissute in passato: con una sola scena si riesce a raccontare una vita e al contempo a sottolineare l’eterna attualità dell’opera di Shakespeare, quindi dell’arte. Di grande umanità è il momento del rientro in cella dopo lo spettacolo, quello che nella vita normale sarebbe il momento dell’adrenalina a mille, tra le congratulazioni del pubblico e della cena qui diventa uno spaccato di profonda tristezza e solitudine e si prova compassione, nel senso più alto del termine, per uomini che hanno un passato giudiziario molto pesante che viene raccontato da una didascalia quando alla fine dei provini si scelgono gli interpreti.
Cesare deve morire non racconta solo la realtà carceraria, ci parla anche di noi, della nostra civiltà: lo scontro così alto raccontato dalla pièce teatrale, la scelta tra repubblica o impero si svolge in seno una civiltà primitiva e violenta. A raccontare il nostro presente è la fotografia: il volo notturno sul complesso di Rebibbia, gli esterni in corridoi stretti, cinti da muraglioni grigi non identificano immediatamente il luogo “galera”, ma potrebbero essere tranquillamente scorci di angoli metropolitani: siamo tutti imprigionati nel brutto.
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