Lo dissi da subito che il remake de L’amaro caso della Baronessa di Carini mi sembrava una mala trovata, ora a 5 anni di distanza sono riuscita a vedere per intero La Baronessa di Carini con Vittoria Puccini e Luca Argentero, passato tra il 31 dicembre e il 1 gennaio su Rai Premium. Questo lustro di distanza ci permette di guardare con oggettivita’ al prodotto fiction Rai nel pieno periodo di fulgore dell’era berlusconiana e osservare come il grande sceneggiato Rai si sia trasformato in una fiction ben confezionata (calligrafica) ma estremamente bigotta.
La storia e’ sempre la medesima: nel XVI secolo Laura Lanza, baronessa di Carini, viene uccisa dal padre per aver disonorato la famiglia avendo una relazione extraconiugale con il bel Vernagallo, la tragedia da vita a una ballata popolare e alla leggenda del fantasma della povira barunissa che ancora aleggia nel castello. A trecento anni di distanza la nuova baronessa di Carini rivive un amore clandestino con un discendente del cavaliere Vernagallo: coincidenza o reincarnazione?
Le differenze tra le due versioni sono minime ma fondamentali: dal punto di vista storico lo sceneggiato del ‘75 si svolge nella Sicilia del 1812 che ha appena adottato una costituzione liberale e Luca Corbara (il Vernagallo) e’ sotto mentite spoglie perche’ deve censire le terre dei nobili. Nella fiction del 2007 l’azione si sposta al 1860 in era preunitaria e Luca Corbara scoprira’ solo in un secondo tempo di essere discendente del Vernagallo. Lo spostamento dell’azione non anticipa di qualche anno i festeggiamenti dell’Unita’ d’Italia di cui abbiamo fatto indigestione nel 2011, piuttosto allontana ogni questione politica inerente alla trasformazione del sistema feudatario borbonico: il Mariano La Grua dello sceneggiato (un cattivissimo Adolfo Celi) incarna perfettamente lo spirito del nobile che non vuole cedere i propri privilegi, compresa l’annessione illegittima dei possedimenti del Vernagallo e i due amanti del XIX secolo morranno come i loro predecessori proprio perche’ vittime degli intrighi di una classe nobiliare di stampo gattopardesco. Enrico Lo Verso invece, nel 2007 interpreta (con poca convinzione) un Mariano La Grua cattivo d’animo, forse perverso ma scevro di ogni amoralita’ politica anzi e’ un fervente borbonico.
Se va riconosciuta all’opera di Umberto Marino una grande eleganza formale con richiami a La donna che visse due volte nello chignon della Puccini quando viene ipnotizzata e soprattutto nei costumi che citano espressamente un abito de Il Gattopardo (quello rosso che la Cardinale indossa nella sequenza nelle stanze disabitate) e soprattutto il vestito da viaggio azzurro di Livia Serpieri in Senso, La Baronessa di Carini diventa il paradigma perfetto della fiction bigotta e perbenista targata Rai1: nella versione del ‘75 nessuno si e’ fatto problemi perche’ la vicenda ruota attorno all’amore extraconiugale di una baronessa, nella versione del 2007 si sprecano bizantinismi per rendere accettabile l’amore tra i due protagonisti: Laura e’ appena uscita dal collegio ed e’ una giovane sposa il cui scostumato marito ha violato la verginita’ la notte prima delle nozze. Non rallegatevi ingenuamente come la sottoscritta perche’ finalmente si affronta il tema dello stupro legalizzato della prima notte, nella seconda parte Laura raccontera’ al suo confessore (e pubblicamente) il misfatto ottenendo implicitamente il permesso di concedersi all’amante visto che l’atto brutale subìto invalida, almeno moralmente, il vincolo matrimoniale con il barone La Grua per volare incontro al melenso happy end. Una contorsione moralista che fa rivoltare nella tomba l’omaggiato Visconti e il regista dello sceneggiato Daniele D’anza, maestro del gotico italiano in una televisione che non voleva mai rinunciare all’insegnamento: confrontate lo sguaiato canto del cantastorie Nele Carnazza della fiction con la sublime cantata di Gigi Proietti che oltre a celebrare una ballata popolare rinverdisce anche i fasti del siciliano ducentesco, lingua fondante dell’italiano moderno.
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