Walter Black, sposato, due figli, a capo dell’azienda di giocattoli ereditata dal padre, e’ un uomo profondamente depresso a un passo dal suicidio. A salvarlo e’ Mr Beaver una marionetta di quelle che si infilano al braccio. Attraverso questa “protesi” Walter riesce a ritrovare le energie e la voglia di vivere.
Confesso che la prima volta che ho visto il trailer il pensiero e’ corso subito ad Harvey, il coniglio immaginario compagno di avventure di James Stewart nell’omonimo film di Henry Koster del 1950, ma la pellicola diretta da Jodie Foster non ha nulla di fantastico, anzi descrive con grande realismo gli effetti della depressione sul protagonista e sulla sua famiglia. Mel Gibson e’ perfetto per la parte; forse per aver sperimentato direttamente gli effetti della malattia e dell’alcolismo, restituisce con la stessa bravura la maschera dell’uomo fallito ed inane e gli sguardi venati di follia che improvvisamente balenano negli occhi di Walter Black. Nonostante il lieto fine (per quanto quell’ingresso nel buio della galleria non lasci presagire nulla di buono) il film non e’ per nulla conciliante: a monte c’e’ una storia di depressione ereditaria che aveva colpito anche il padre di del protagonista e a cui il figlio maggiore, Porter, tenta disperatamente di sottrarsi.
Spesso si sottolinea come la recente filmografia americana narri l’assenza del Padre, questa e’ una storia interessante anche per il modo in cui la madre, interpretata da Jodie Foster, fa un passo indietro e lascia che gli uomini della sua famiglia affrontino direttamente la malattia e il dolore: siamo ben lontani dal modello di madre che si sobbarca tutto sulle spalle, quello portato sul piccolo e grande schermo da Sally Field, per intenderci.
Alla sua terza regia cinematografica la Foster conferma una grande sensibilita’ anche nella composizione dell’immagine, partendo da dettagli di oggetti comuni ed e’ commovente la finestrella che Porter riesce ad aprire (non sveliamo il come) nella parete della sua stanza scavandosi a fatica e dolorosamente una via di fuga dalla claustrofobica ed ossessiva esperienza familiare.
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