Kathy, Tommy e Ruth crescono in un’Inghilterra distopica dove dal 1950 e’ iniziata una grande rivoluzione medica basata sui trapianti. I tre ragazzi fanno parte di quei cloni umani allevati in appositi istituti dove vengono preparati al loro compito di donatori di organi che li portera’ inevitabilmente alla morte: condizionati alla rassegnazione ma non immuni all’innamoramento.
Quando mi capita di pensare a un futuro dove il trapianto sara’ la soluzione piu’ semplice per molte gravi malattie che attanagliano l’umanita’, mi immagino ambienti sterili dove gli organi di riserva di ognuno di noi vengono coltivati singolarmente e resi vitali da macchinari medici.
Non lasciarmi ha cozzato duramente con questo mio edulcorato immaginario e mi ha portato a riflettere su problemi etici piu’ contingenti che esulano anche dalla tematica medica. Nella scena in cui i ragazzi vanno in citta’ sulle presunte tracce della “possibile” di Ruth e la spiano da una vetrina, le persone normali li deridono come se fossero zingari o comunque una delle tante tipologie di diversi che snobbiamo regolarmente: c’e’ sempre nell’individuo perfettamente inserito nella societa’ un senso di superiorita’ verso chi non lo e’ e non importano le ragioni della diversita’: non interessano proprio, per poter tenere alte le barriere.
Potrei andare avenati a lungo a farneticare sulle sensazioni smossemi dalla pellicola tanto mi ha intrigato la filosofia alla base del film, forse dovrei leggermi il romanzo di Kazuo Ishiguro, da cui e’ stato tratto. Come pura visione filmica invece non ho provato le stesse emozioni, bella prova attoriale (gli occhioni tristi di Carey Mulligan) ma a livello registico ho trovato dei vezzi autoriali (l’insistenza sul pallone abbandonato, il volo degli uccelli) che hanno appesantito una materia che non aveva certo bisogno di sottolineature.
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