Elia Suleiman racconta cinquant’anni di storia israelo-palestinese attraverso la sua vicenda personale in un film che sa mantenere uno sguardo sempre disincantato sulla terribile questione medio orientale. La pellicola e’ divisa in due parti, la prima rievoca l’infanzia del regista e le gesta del padre Fuad, bello come un attore americano, giovane arabo che nel 1948 vede la sua terra diventare territorio israeliano. In questo primo segmento colpisce soprattutto la raffinatezza della composizione che, mista a una certa ieraticita’ delle pose (l’atrio della scuola il giorno della morte di Nasser) mi ha ricordato Paradzjanov.
La seconda parte del film narra il rientro di Suleiman in patria dopo anni di esilio e il regista interpreta se’ stesso vestendo la maschera muta ed impassibile che fu di Buster Keaton; se la stolida imperturpabilita’ del comico americano sottolineava l’impossibilita’ dell’uomo comune di gestire il progresso tecnologico, l’attonita espressione inalterabile di Suleiman sottolinea l’impossibillita’ per un estraneo (o meglio una persona vissuta in maniera civile) di accettare la situazione ormai surreale di una Terra (Santa!) militarizzata da oltre mezzo secolo.
Gia’ nella prima parte si respira quest’aria di follia incombente con il ripetersi assurdo delle stesse situazioni (i militari durante la pesca notturna, il vicino che tenta di darsi fuoco o propone le sue idee strampalate al padre di Suleiman ogni qualvolta questi ripone la canna da pesca)
Il film non distingue tra buoni e cattivi, non incolpa il colonialismo israeliano o il fatalismo arabo, ma mostra con surreale determinazione il risultato di un tipo di vita inumana che ha prodotto un’assurda coazione a ripetere ruoli e situazioni che hanno incancrenito senza speranza la situazione politica.
ciao Evita, ho visto anche intervento divino: mi è piaciuto molto, meno che questo, ma molto interessante. bacini.
Scritto da: babu | 23 agosto 2010 a 12:42