6 giugno 1982, il primo giorno di guerra visto attraverso gli occhi di quattro burbe in un carrarmato a far da copertura a un contingente israeliano che varca i confini del Libano.
Leone d’oro all’ultimo festival di Venezia, Lebanon e’ l’opera prima e per certi versi autobiografica del regista Samuel Maoz; colpisce il parallelo con Un valzer con Bashir: dopo un quarto di secolo riaffiorano con prepotenza i ricordi di una guerra che pareva superata, cosa ci tocchera’ vedere quando tra 10/15 anni saranno i reduci delle due guerre del Golfo a dover scendere a patti con la loro memoria?
La particolarita’ di Lebanon e’ l’unita di luogo: tutta l’azione si svolge dentro il tank e quello che avviene all’esterno e’ raccontato attraverso il mirino del carrarmato. Il claustrofobico mezzo militare diventa la metafora della guerra, sporca, squallida e puzzolente. Il cingolato che ha gia’ l’aria di un residuato bellico, si trasforma di volta in volta in bara per un soldato israeliano fino a quando il corpo non potra’ essere evacuato dalle forze alleate o prigione di un soldato siriano, tutto sotto gli occhi spaventati dei quattro giovanissimi soldati di leva che si trovano loro malgrado a vivere la terribile avventura di entrare in territorio libanese e attraversarne una parte per arrivare a un fantomatico hotel. Un compito che il comandante del drappello descrive a ragazzi come una passeggiata e per quanto il film si chiuda con il sogno poetico di una fuga utopica la domanda resta: quanto puo’ essere stato indicibile l’orrore seguente?
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