Vent’anni fa, nel 1989, Michael Moore debuttava alla regia con il suo primo film, Roger & me dove indagava con lo stile che lo ha reso unico, amato ed odiato, la crisi della industria automobilistica a Flint, paese natale dell’autore; oggi con Capitalism: a love story il regista tira le fila di quattro lustri di riflessioni critiche sulla propria patria.
Prendendo spunto dalla recentissima crisi economica dei subprime, Moore racconta in realta’ il suo percorso di crescita personale: come un ragazzo della working class americana sia diventato la spia del malessere di una nazione, la superpotenza mondiale che sta sfrattando molti dei suoi cittadini che non riescono a pagare il mutuo, trasformando interi quartieri in citta’ fantasma degni del vecchio west.
L’analisi che Moore fa della crisi economica che stiamo attraversando e’ agghiacciante: documenti alla mano prova che i ricchi non si accontentano piu’ di vedere crescere le proprie ricchezze in maniera esponenziale, ma vorrebbero trasformare gli USA da culla della democrazia in un’oligarchia plutocratica: perche’ se le ricchezze del Paese sono in mano a poche persone le decisioni politiche, cioe’ il voto, dev’essere distribuito equamente? Se i ricchi sono pochi, la vera ricchezza del poveri diventa la possibilita’ di scegliere il governo rischiando di mandare a monte il lavoro delle lobby; quanto temuto dagli analisti finanziari che gestiscono il denaro del jet set si e’ puntualmente avverato con l’elezione di Obama, e vista in quest’ottica assume un senso anche il Nobel ricevuto dal Presidente americano, anche se lo dico a denti stretti viste le attuali posizioni del governo democratico nei confronti del prossimo vertice sul clima a Copenhagen.
Per quanto i film di Moore possano essere giudicati tendenziosi, questa pellicola non e’ un peana nei confronti del nuovo presidente americano; il regista sottolinea il vento di speranza e cambiamento che l’elezione del primo presidente di colore americano ha portato con se’ ma poi lo inchioda alle proprie responsbilita’ mostrandogli il modello di Franklin Delano Roosevelt, tirando fuori dal cilindro documenti rari e commoventi che mostrano il presidente del New Deal in una delle sue ultime apparizioni pubbliche mentre illustra il suo piu’ grande sogno rimasto irrealizzato, una nuova carta costituzionale.
Moore conclude il suo film dicendo che e’ stanco di questi venti anni di battaglia combattuti da solo, non so se il regista abbandonera’ la cinematografia di impegno sociale, di certo Capitalism: a love story chiude un cerchio: e’ un film di grande speranza che dimostra fattivamente come una nazione fino a poco tempo fa delusa e spaventata abbia trovato la forza di reagire agli sfratti e ai licenziamenti, questa e’ la via che Moore sogna per una nuova rinascita americana, e oggettivamente tanto schifo non fa.
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