L’ultima fatica di Virzì è piacevole come sempre, ma come sempre non supera il bozzetto.
La candida Caterina e’ prima di tutto un personaggio anacronistico: con la diffusione dei media oggi non è possibile che una ragazzina tredicenne non sappia chi sono le teste rasate e pensi ai pidocchi! Forse Virzì ha pensato troppo alla sua adolescenza: anche io posso affermare “Caterina c‘est moi!” ripensando al mio ingresso al liceo di città più di una ventina d’anni orsono, quando ingenua ragazzina di campagna mi ritrovai in classe con figlie di senatori comunisti e giovani della città bene che come i pariolini portavano il nome della via in cui si ritrovavano: lo scontro non era così evidente perché la destra doveva ancora trovare una sua identità, ma lo schieramento era necessario.
Il personaggio di Margherita è troppo legato allo stereotipo di quegli anni e la sua gregaria si esprime infarcendo il discorso di “cioe’“ come lo sconvolto di Verdone dei primi anni ‘80; anche se si vuole accettare questa forzatura come “licenza poetica” per meglio mettere alla berlina i difetti della Roma di potere e di successo, devo criticare il lieto fine posticcio, con la scomparsa nel nulla e soprattutto per l’indifferenza di Caterina per la sorte del padre, che è in realtà il fulcro del film, rappresentante di un Italia media, anzi mediocre sempre disposta a compiacere chi ha avuto successo.
Ulteriore prova che Virzì non e’ Monicelli.
social